“Baudrink”

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Liberty Island – 18:40.

Carmelo, il picciotto numero 55, s’inginocchiò sulla scalinata che conduceva alle stanze della mega villa. Tremava, aveva una fottuta paura di guardare negli occhi il fantomatico Don Saryo. Quest’ultimo odiava le brutte notizie.

Don Saryo scese le scale, accompagnato da due picciotti vestiti in nero. Lo sforzo gli aveva provocato una specie di asma, così si fermò cinque scalini prima di Carmelo. Fece mente locale: la prima volta che avesse incontrato quel miserabile di Destino, gli avrebbe strappato gli occhi dalle orbite. Rise sguaiatamente, afferrò un block notes dalla tasca e scrisse i suoi pensieri.

Carmelo abbassò la testa, fissando lo scalino più vicino. Lui era il responsabile del “Bau Drink”, un locale che adesso non serviva più a nessuno. Chiuso dai sigilli di quei fetusi di sbirri. La scientifica di New York aveva aperto un’indagine per il canicidio di tre cani. E il locale l’avevano trovato semi distrutto e l’incasso…sparito.

“Perché sei qui?” chiese Don Saryo dopo una lunga pausa (l’aveva usata per riprendere fiato!). Fissò il dipendente e scandì queste parole: “Gennaro, perché non sei al locale?!?”.

Un picciotto gli fece umilmente notare che si chiamava Carmelo, non Gennaro.

Don Saryo riprese il taccuino e scrisse un appunto: i picciotti indosseranno maglie con il proprio nome stampato sul petto! Non poteva ricordarsi mille e passa fottuti nomi.

Carmelo singhiozzò, poi riuscì a riprendersi: “Ho una brutta notizia da portarvi!”.

“Brutta o bruttissima?” fece Don Saryo.

“La seconda che avete detto!”.

Don Saryo deglutì a fatica, cadde indietro finendo seduto su un gradino. La faccia divenne rossa, il respiro quasi un rantolo. Il sudore gli imperlava la fronte.

“I vostri cani…”, Carmelo fece un respiro profondo, infine fece un gesto eloquente: passò il pollice vicino alla gola.

“Tutti morti sono! Sembra sia stata l’Angelo dell’amore. Si faceva chiamare Angelina Jolie – Tomb Raider! Una bella figa!”.

Don Saryo si accasciò a terra, chiuse gli occhi per l’ultima volta e, il cuore, gli si spezzò letteralmente. I funerali sarebbero avvenuti nel giro di due giorni, per la gioia dei pretendenti al trono.

Stanza Bianca – 19:00 ore locali di New York.

Saryo si guardò intorno, circondato da quattro pareti bianche. Non c’erano né soffitto, né pavimento. Destino comparve alle sue spalle, senza provocare rumori. Amava spaventare chi saliva nella sua stanza. Ma Saryo non si fece cogliere impreparato: si voltò e lo afferrò per la gola eterea.

I due corpi fluttuavano, ma la mano del vecchio Diavolo…

Destino rantolò, piagnucolò qualcosa di indefinito.

“Adesso mi devi un favore enorme” sibilò il Diavolo, “voglio un corpo indistruttibile, perché devo tornare subito laggiù! Mi stanno aspettando!”.

[TumpTumpTump!].

“Mi è rimasto Robocop! Fanne buon uso. Ah, i colpi sono infiniti, ma non uccidere persone innocenti, o qualcuno lassù potrebbe incazzarsi di brutto.”.

Saryo sorrise e si ritrovò nel corpo cibernetico di Robocop.

New York – 19:01 – Commissariato di zona.

L’auto pattuglia 49 si fermò davanti alla scalinata del commissariato, lo sportello sinistro si aprì di scatto e ne uscì un nuovo agente: Robocop Saryo salì gli scalini. Il traffico della zona si era paralizzato, curiosi si stavano radunando per capire se stessero girando un film.

L’agente varcò l’ingresso e tirò fuori due pistole d’acciaio, automatiche, con colpi infiniti. Vide Angelina Jolie – Tomb Raider girata di spalle. Inconfondibile con quella treccia, quel portamento da figa di Hollywood.

“Ferma!” gridò l’agente.

Nata Libera si paralizzò, forse aveva un brutto presentimento.

“Sei in stato d’arresto per il canicidio di tre cani, per il furto dell’incasso del Bau Drink, danneggiamento alla proprietà privata…”.

Angelina avvicinò la mani alle fondine, si voltò lentamente e Robocop Saryo sparò 150 colpi uccidendola all’istante. Rimise le pistole negli alloggiamenti metallici, mentre il fumo ancora usciva dalle canne delle pistole.

“…E per resistenza all’arresto! Ti saresti fatta qualche annetto di galera!”.

Sononatalibera tornò da Destino per un altro corpo.

“Un mafioso a quattro zampe”

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[A Max.]

Angeli e Diavoli, tutti a New York, a parte pochi che sono rimasti a scaldare caverne e nuvolette. Ma come non raccontare la piccola storia dell’unico essere vivente che non si è incarnato in nessun corpo?

Una creatura indifesa, simpatica, bellissima e… incazzatissima.

Nessuno ha capito di chi si parla?

Atipicoz aveva pensato a tutto, anche di recapitare quel povero cane a quattro brutti ceffi – picciotti – per l’esattezza. Quattro scagnozzi di Don Saryo, se vogliamo essere più precisi.

Quel cane era paziente, e aveva anche lui uno scopo in quella fottuta città. Ma andiamo con ordine, perché la storia non è semplice, ci sono molte cose in ballo: aspirazioni, vendette, una sfida, l’orgoglio di esseri che non mettono piede sulla terra da quanto tempo? Solo Lui lo può sapere!

Max attese che gli uomini del mafioso più rispettabile d’America discutessero animatamente su minchiate futili. E così avvenne. Si mise seduto a fissarli, mentre il primo pugno centrava la guancia del picciotto più piccolo: 1 metro e ottanta con un corpo da armadio a quattro ante! Uscì in strada mentre la prima sedia volava sulla schiena di un altro picciotto.

Mise le zampe sul marciapiede e corse via, finalmente libero.

Nel giro di dieci minuti superò due isolati, tre incroci a multipla percorrenza, due negozi per cani e si fermò davanti alla scalinata che conduceva a un commissariato. Si, avete capito di quale commissariato…

Attese l’arrivo di un furgone bianco, dal quale gli vennero affidati alcuni articoli sanitari.

Max (per prima cosa) entrò negli uffici: c’erano alcune donne affascinanti, poliziotti che sbavavano al solo vederle e la luce di uno stanzino spenta. Afferrò con la bocca la spina e la riattaccò. Miracolo! La Play Station si riaccese, Prince e Atipicoz ripresero in mano i pad, come mossi da movimenti meccanici.

Dopo soli due minuti, Max tornò trascinando un carrello con il seguente materiale: due flebo, due cateteri. Prince schiacciò pausa e si mise quegli arnesi e costrinse Atipicoz a fare altrettanto. Avrebbero giocato a calcio per settimane senza nessuna pausa…

Max corse fuori e salì sul furgone bianco, che aveva il motore acceso e lo aspettava.

Sapete chi c’era all’interno?

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Bassotto

Maya e Gigi guidavano il furgone, Max gli sedeva accanto.

Percorsero Williamsburg Bridge per intero, finché raggiunsero un negozio particolare: Schachner Fashions Lingerie. Maya stava al volante, Gigi lavorava sui pedali e Max indicava dove fermarsi.

Ah, non vi ho mai menzionato del nuovo navigatore satellitare Bau Bau? Per cani che non devono chiedere mai! Ecco, Max lo possiede. Come possiede una serie di carte di credito e le striscia lui!

Parcheggiarono il furgone a lato, lo sportello si aprì e Max trotterellò fino al negozio: acquistò cinque completi intimi per donna e li fece caricare dai dipendenti (sempre più stupiti!).

Maya fece inversione e tornò sull’altro lato della strada. Max aveva visto due negozi, uno si chiamava Bang, l’altro Bank. Decise di fermarsi a far compre.

Il trio canino uscì da Bang (negozio di armi) ed entrò nel retro del furgone. Uscirono dopo qualche minuto e, agganciati al collare, avevano due fucili Winchester carichi, un post – it con su scritto nella lingua umana: questa è una rapina. Versate il contante in questi due borsoni, oppure faremo una caninicina. E avevano con sé anche i due borsoni di cuoio.

Entrarono nell’altro negozio: Bank e ottennero subito l’attenzione che volevano. Gigi sparò due colpi (ha le zampe piccole e non ha avuto problemi!). Fu il direttore, dopo essersela fatta sotto, a portare gentilmente le borse all’interno del furgone. Il trio salutò il gentiluomo con un abbaio smorzato, salirono sul mezzo e se la diedero a gamb, ehm a zampe levate.

Portarono il malloppo a Don Saryo (nel garage con le casse di legno), salutarono scodinzolando e fuggirono verso la meta agoniata: un nuovo locale “Bau Drink”. Si misero seduti a un tavolo (senza sedie), ordinarono un latte e croccantini e presero un mazzo di carte. Giocarono a poker col morto fino a tarda sera.

Che dite, Don Saryo ha vinto la sfida?!? Per la cronaca, Don Saryo spedì al commissariato i cinque pacchi di lingerie femminile, per le quattro donzelle rimaste a fissare con gli occhi vitrei i due babbei attaccati alla Play Station.

“Liberty Island”

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Eccomi qui a riempire un altro post per il mio blog, che sarebbe il primo di quest’anno. Ho intenzione di iniziare una nuova categoria, quella di libri che sto leggendo ultimamente. Non ho scritto molto in questi ultimi mesi, anche se ho sempre voglia di cominciare nuove storie, nuovi personaggi, nuove avventure…

Tranquilli, finché il mio cuore batterà, cercherò sempre di proseguire con la mia passione.

Intanto oggi vorrei aggiungere un altro breve racconto che scrissi nel 2011. Come gli altri due, sarà piuttosto divertente, almeno lo spero.

Buona lettura.

                                                                          Liberty Island

L’incontro si tenne nella residenza di Don Saryo: sull’isola di Liberty Island, a poche miglia dalla costa newyorchese.

La Statua della Libertà osservava gli uomini che si fronteggiavano.

Don Saryo era circondato dai suoi picciotti, tutti armati, tutti vestiti di nero. Giunti sull’isola con uno yacht, una lussuosa imbarcazione varata un’ora prima e chiamata Max in onore del suo cane.

Il commissario Prince, invece, aveva dovuto usare la flotta della Guardia Costiera (circa una ventina di piccoli motoscafi).

Sotto quell’enorme monumento c’erano due soli uomini – il Bene e il Male, il Crimine e la Legge – chi dei due avrebbe prevalso?

Liberty Island veniva calpestata da così tante persone, che nemmeno i turisti che l’avevano visitata potevano competervi per il numero.

Don Saryo si fermò due gradini sopra il commissario Prince e lo guardò sorridendo. Somigliava a Brad Pitt, con un corpo più statuario, fisico asciutto, sguardo intellig…

Naaa, Saryo ricordava lo sguardo dell’Angelo della Spiritualità, era qualcosa di vacuo, di indefinibile per tutta quell’erba che si fumava! Ma adesso quel pollo, ehm Angelo, stava in quel corpo perfetto, invidiabile. Destino aveva giocato un brutto scherzo al nostro Diavolo e, un giorno o l’altro, se ne sarebbe pentito.

“Qualsiasi cosa tu abbia in mente, per favore, fallo subito! Minchia, sono stanco di aspettare!” disse Prince.

Don Saryo ghignò e disse: “Il commissario ha da fare! Minchia, lo avete sentito?!?”. Un’enorme risata scaturì dalle parole del capo. Anche qualche poliziotto rise, non per la battuta, ma per paura, perché si trovavano in un territorio ostile, pericoloso, inaffidabile.

Don Saryo, il piccolo capo ma puro concentrato di cattiveria, poteva – con un solo schiocco delle dita – decretare la fine di quegli insulsi sbirri, compreso il commissario Rex…ehm Prince!

Ma il commissario era a conoscenza di questo fatto e, sapeva anche che – Don Saryo – non fosse in grado di schioccare due dita. Battere le mai si, schioccare due dita no! Ecco perché, nella sua mega villa, tutto si accende con un battere di mani (clapper), altrimenti resterebbe sempre al buio (ma questa è un’altra triste storia!).

Il commissario Prince si guardò intorno, poi si fermò con gli occhi sul suo rivale: “La tregua è compromessa!”, abbassò il tono della voce per rendere la chiacchierata più intima. “E’ Lui che mi ha mandato, dobbiamo risolvercela tra noi, e chi vincerà…”.

“Minchia!” ribatté Don Saryo portandosi una mano al mento e massaggiandoselo. “E così sono il fottuto prescelto? Colui che deciderà della sorte dei Diavoli? Colui che…”.

“Si, si, tutta quella roba là!” lo interruppe Prince.

Don Saryo alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, sorrise compiaciuto: “Che la fottuta sfida abbia inizio!”.

Prince afferrò un braccio di Saryo, ne scaturì uno sferragliare di armi.

“Di quale minchia di sfida parli?”.

“Rapinerò una banca senza essere catturato, questo decreterà la mia vittoria!”. Salì di un gradino puntando il dito indice sul commissario: “Giocheremo a guardia e ladri!”.

“Un nuovo corpo”

Angelo e Diavolo

Saryo, dopo essere uscito dalle caverne infernali, aveva vagabondato fino in Italia (sotto forma di spirito!). Aveva deciso di ficcarsi dentro un’anfora antica, un reperto archeologico, finché il caso, oppure il destino, decidesse per lui.

La nave approdò a New York e, il prezioso carico, venne calato sul molo del porto: le casse furono caricate su dei furgoni e Saryo attese, attese, attese. Pensava al suo cane, lasciato nelle caverne con ByC, Erinny, Carroll, Morfeo, Queen, mentre la SignoraNessuno pensava a una fottuta  sfida da fare con i sette Angeli.

Quando Saryo aveva preso la decisione di andarsene, ricordò i pianti dei compagni, ma anche che avevano tirato fuori delle bottiglie di champagne, dei bicchieri per l’occasione, e… no! Non erano pianti quelli, ma festeggiamenti e lacrime di gioia! Chissà che scempio dopo la sua partenza: chi si sarà accaparrato la sua caverna? Ci sarebbe stata una lotta all’ultimo sangue per quei luridi metri quadrati di roccia e polvere (per la gioia di ByC e qualcun altro!).

L’anfora venne aperta e Saryo si sentì risucchiato. Aprì gli occhi e, con stupore, capì di essere finito dentro a un corpo umano. C’erano degli uomini intorno a lui, tutti vestiti di nero, con cappelli neri, scarpe nere. Cazzo, pensò, a questa gente piace il nero!

Saryo aprì la bocca per dire qualcosa, ma la prima parola che gli uscì fu: “Minchia!”, poi disse “Dove minchia mi trovo!”. [N.d.S. Nota di Saryo: da adesso, quando leggerete i dialoghi, siete pregati di dare inflessione sicula, per chi ne è capace, così da rendere più verosimile il tutto! Grazie per la collaborazione.].

“Minchia Capo, ti trovi nel tuo covo! E noi i tuoi picciotti siamo!” il tizio sorrise, ma nell’arcata superiore gli mancavano tre denti. L’uomo si accorse del disgusto che provava Saryo e indicò lo spazio fra i denti: “Sono stati quei fetusi di sbirri! Con il calcio della pistola me lo fecero!”.

“Adesso ricordo!” disse il capo, cercando di fingere. Gli venne un sospetto: tutti gli uom…ehm i picciotti, erano più alti di lui. “Portatemi subito uno specchio!”, li guardò mentre loro lo fissavano, interdetti: “In che minchia di lingua devo dirvelo? Voglio un fottuto specchio!”.

Un picciotto dal tono calmo gli disse: “Capo, se urli ancora ti sale la pressione e che minchia ci diciamo a u dottore?”.

“E’ vero!” disse un altro, “L’ultima visita la fece ieri e ti ha proibito di urlare. Poi, gli specchi, ce li hai fatti portare via perché non sopporti la tua immagine. Madre natura non è stata magnanima col nostro capo!”.

In quale minchia di corpo sono finito, pensò Saryo. Ecco, adesso penso anche in questa strana lingua!

“Comunque sei il più ricco e rispettato di tutte le nostre famiglie. I tuoi affari vanno a gonfie vele e fra due ore ti vedrai con il commissario di zona! Minchia capo, non ti ricordi più un cazzo!?!”.

Saryo fece due passi avanti, esaminò l’ambiente. Si trovava all’interno di un garage che conteneva centinaia di casse di legno. Arrivava con il mento al piano del tavolo, ne dedusse che doveva raggiungere il metro e trenta centimetri. Piccolo e tracagnotto si sentiva, ma di una cattiveria diabolica. Un concentrato di cattiveria!

“Da oggi mi chiamerete Don Saryo!” disse sfidando gli sguardi di tutti i picciotti presenti. “E come si chiama il commissario che dovrò incontrare?”.

Un picciotto si fece avanti, si mise sull’attenti e urlò: “Si fa chiamare Prince, Signore!”. Rimase fermo come una statua di marmo, petto in fuori, pancia in dentro.

Don Saryo mise le piccole mani dietro la schiena ed esaminò il picciotto che aveva di fronte: “E che minchia gli è successo a questo qui! Perché urla in questo modo?”.

“Perdonalo, Don Saryo, ma ieri ha visto Full Metal Jacket e…”.

“Riposo, soldato!”. Il picciotto si mise sul riposo formale. “Rompete le righe!” disse il capo e il sold…ehm il picciotto uscì dal garage.

   Sono circondato da minchioni, pensò osservando gli altri uomini schierati nel garage.

Il commissario si faceva chiamare Prince! Quel nome non gli era nuovo, e se fosse stata quella la prova che dovevano fare gli Angeli e i Diavoli? Il Bene contro il Male in una città come New York.

“La sfida”

Angeli e Diavoli

All’interno delle grotte regnava la confusione totale, da girone dantesco. I Diavoli stavano scontrandosi tutti contro tutti, cercando di avere la meglio uno sull’altro. C’erano dei diverbi, come sempre, e la ragione veniva annientata dalla forza del sopruso, dalla violenza, dalla prevaricazione. I Diavoli vivevano in questo mondo da sempre, più o meno.

Un giorno, però, qualcosa cambiò. Successe quando qualcuno aveva osato ficcare il naso in affari che non gli riguardavano. Anche i Diavoli hanno una mente (perversa e cattiva, ma ce l’hanno!).

La SignoraNessuno tirò un urlo che si disperse in echi fra gli antri. Tutti si immobilizzarono come statue di sale: Saryo, con in braccio il suo cane e la pistola nell’altra mano, rimase interdetto. ByC mosse un labbro per la disapprovazione ed esclamò: “Che palle! Proprio ora che stava per scorrere il sangue a fiumi!”.

Morfeo ed Erinny si svegliarono. “Che cazzo succede?” chiesero in coro e gettarono i nani da giardino dentro la Fiamma Eterna.

Gli altri attesero.

“Non vi siete accorti che ci spiano?” chiese SignoraNessuno. Queen tirò su con il naso, accarezzando i capelli corti. Quanto avrebbe voluto scannare chiunque le avesse fatto quel lurido scherzo!

Carroll si avvicinò di soppiatto alla Signora: “Di chi cazzo parli?”, ByC sorrise in modo strano mentre, Morfeo ed Erinny, si guardavano non capendo.

“Di chi parlo? Possibile che non abbiate un minimo di fantasia? E se vi dicessi che i guardoni sono quelli del piano di sopra?”. La SignoraNessuno sorrise.

“Mhm” disse ByC, “mi è venuta voglia di carne di pollo! Soprattutto quattro paia di ali, le più tenere!” e rise sguaiatamente.

“Queen! So chi è stato.” fissò i capelli della diavolessa, “E so anche chi è stato a gettare le polpette al cane di Saryo.” continuò la Signora. Saryo posò il cane a terra, tolse il caricatore dalla pistola e ne inserì uno con sette proiettili. Un caricatore speciale!

Morfeo esordì con un colpo di tosse: “E come facciamo? Lui vede e sa tutto! Quale giustificazione hai in mente?”.

“Una prova, tanto per non farli annoiare. So che Prince ha superato il quintale e le nuvole fanno fatica a reggerlo. CosimoBernardo non fa altro che dormire sui prati. E gli altri, bhè, si stanno facendo pigri. E Lui non fa altro che dir loro di fare movimento: detesta vedere i suoi Angeli diventare rincoglioniti, peggio dei drogati.”.

Risero tutti, come pazzi.

“Allora, vogliamo spaccare il culo ai passerotti?” urlò la SignoraNessuno.

Un coro di “Si!” echeggiò nelle caverne.

Fra Angeli e Diavoli c’era un patto, un patto eterno. Lui l’aveva suggellato, a meno che non venisse rotto da un solo esponente di una delle due parti. Ogni fazione doveva vivere in perfetta armonia (un termine che i Diavoli non concepivano, ma fa lo stesso!) e non dovevano essere spiati da nessuno. Come Prince poteva far apparire uno schermo paradisiaco, così i Diavoli potevano captare un’interferenza, una spia fra loro.

Prince e SignoraNessuno furono ricevuti in udienza da Lui in “persona”, e venne deciso di indire una sfida fra i quattordici membri: sette Angeli e sette Diavoli. Nessuna ricompensa, ma l’eterno schiaffo morale in caso di vittoria, da ambo le parti. E se gli Angeli avessero perso? Un probabile esilio dal Regno Dei Cieli.

SignoraNessuno strinse la mano di Prince, ma un sinistro barlume provenne dal suo ghigno.

“L’apocalisse”

 

Le sirene risuonarono a lungo, per molti minuti, mentre il cielo si stava oscurando di nubi nere sopra le teste delle persone. Qualcuno cadde in ginocchio sulle macerie, fissando quello spettacolo spaventoso. Ovunque c’erano richiami di aiuto, urla soffocate dalla polvere che ricopriva tutti, sia vivi che morti.

“I vulcani sono esplosi!” aveva urlato qualcuno prima di fuggire via. Poi la terra aveva tremato, lacerando strade e sbriciolando case ed edifici. I cornicioni furono i primi a cadere, uccidendo le persone sui marciapiedi. Le auto danzavano, gli antifurto gemevano, la gente cadeva nelle voragini che si allargavano sulle strade.

Il colonnato di S. Pietro cadde. La basilica collassò su sé stessa.

Roma fu la prima città a venire dilaniata dalla natura.

Diego Vorra si ritrovò all’interno della catastrofe, fu uno degli spettatori inconsapevoli della fine di tutto. Il genere umano sarebbe sopravvissuto?

Un sacerdote uscì dal suo nascondiglio, da sotto un’auto parcheggiata in Via della Conciliazione, e si alzò in piedi a stento. Del sangue gli usciva da una ferita alla testa, alcune lacrime gli rigavano le guance. Cadde in ginocchio, stremato, l’abito sporco di polvere: “Che Dio ci perdoni!” disse alzando gli occhi al cielo. Le nubi nere, le polveri piroclastiche stavano coprendo il sole. L’ombra inghiottì la luce. La cenere cominciò a scendere sulle rovine di Roma, quasi fosse neve.

Diego spostò lo sguardo sul sacerdote, quando la terra tremò di nuovo e si aprì una voragine larga due metri. Vide il prete precipitare negli abissi profondi. Non fece in tempo a salvarlo.

Che cosa stai facendo? Non reagisci? Non ricordi chi sei?

Diego si guardò intorno, senza scorgere nessuno. Si chiese se avesse delle allucinazioni.

“C’è qualcuno?” urlò. I gemiti, le richieste di aiuto non si sentivano più. Si trovava al centro della strada, si voltò osservando l’orizzonte, che adesso era libero perché non esisteva più una costruzione che gli impedisse di vedere.

Roma era stata rasa al suolo.

Si pulì il viso con la manica del giubbotto, si tolse la cenere dalla testa.

* * *

Roma – 21 dicembre 2012 – ore 18:00 circa.

Mi chiamo Diego Vorra e sto scrivendo un diario su cui annotare tutto quello che mi accade. L’umanità non verrà annientata, questo lo so per certo, anche se non posso rivelarvi tutto. Ci sono cose che vorrei rimanessero mie.

Non crederete a tutto quello che scriverò su questi fogli di carta, ma poco importa sapete? L’importante è che lasci un segno del mio passaggio, una sorta di biografia degli ultimi giorni, delle ultime ore che passerò su questa terra.

Credete in Dio? Se la risposta è no, forse, letto quello che ho da dirvi, cambierete idea.

Una volta ero un angelo, poi sono diventato un diavolo, infine di nuovo un angelo. E’ stato un percorso di crescita il mio. In principio ero una creatura ultraterrena, finché mi è stato chiesto di scendere sulla terra, di occupare un corpo e di vivere secondo le vostre regole. Avevo un compito, più di uno per la verità.

Oggi, dopo quello che è successo, mi è stato assegnato un nuovo obiettivo: salvare qualcuno per far sopravvivere il genere umano. E quello lo farò ad ogni costo, che Dio mi sia testimone!

Siamo arrivati sulla terra in quattordici, sette angeli e sette diavoli, ognuno con il suo compito da portare a termine. Il bene e il male, il bianco e il nero. Ma oggi tutto è cambiato, i ruoli sono caduti e i sopravvissuti sono diventati schegge impazzite. Io devo stanarli e cancellarli dalla faccia della terra!

Quando la fine è diventata visibile a tutti, mi sono svegliato e ho capito chi sono. Anzi no! Cosa sono!

Nell’ultima incarnazione sono un agente della Squadra Alpha, che fa parte di un’agenzia non governativa del Vaticano. Non sono un prete, ma solo un uomo che sa affrontare situazioni che gli umani non saprebbero superare. Ah, i miei compagni sono tutti morti durante l’ultimo terremoto che ha devastato la capitale della cristianità. Sono rimasto solo io, ma gli uomini non sono stati cancellati dalla faccia della terra, non ancora, ma il punto di non ritorno è molto vicino. I secondi, i minuti e le ore stanno per scadere.

Le città degli uomini sono diventate tombe piene di polvere e detriti!

Onde gigantesche hanno pulito le coste uccidendo milioni di persone.

Da quando sono sceso sulla terra, ho ucciso molte persone, ho indossato i loro corpi di cellule e carne e ho vissuto l’esperienza più devastante che potessi immaginare. Ho imparato ad amare e odiare, ho pianto e riso e ho passato anni fra la gente. Mi sono adeguato alla legge del più forte, che in certi casi rende la vita più facile.

Vivere non è mai stato facile!

Una volta, mesi fa, incontrai un angelo e un diavolo incarnati. Avevano trovato un equilibrio, si amavano e avevano formato una famiglia. Chissà se avevano dimenticato da dove venivano.

Qualcuno, leggendo queste pagine, potrebbe chiedersi come abbia fatto a riconoscerli. Semplice, ho usato un paio di occhiali dalle lenti speciali, che riescono a vedere il colore dell’aura che circonda ogni essere vivente. La loro aura era azzurra e rossa, gli umani ce l’hanno bianca.

Stavano facendo shopping, si tenevano a braccetto, quando ho estratto un fucile particolare, simile all’acciaio, oppure all’argento. Indossavo i miei occhiali, un soprabito nero e quel fucile particolare: si sono immobilizzati sul marciapiede e non dimenticherò mai il sorriso dell’uomo quando mi ha visto. Si è trasformato in una smorfia di orrore e paura. Ho sparato un colpo al petto dell’angelo, mentre la donna è riuscita a sprofondare nell’asfalto. Beatrix era riuscita solo a rimandare la sua morte, mentre Atipicoz era evaporato come ghiaccio al sole. Terminato come dovevano finire tutti gli angeli mandati sulla terra.

Roma – 22 dicembre 2012 – ore 08:20 circa.

Gli sciacalli stanno rovistando fra cumuli di macerie, gruppi di persone che tentano di sopravvivere nell’inferno salito sulla terra. Li lascio fare, purché non intralcino il mio destino.

La vita sulla terra non sarà più la stessa, in quanto la società è caduta, come è caduto tutto quello che l’uomo ha costruito nei secoli dei secoli. Giustizia divina? Può anche essere, non spetta a me giudicare.

Voglio parlarvi del mio passato, di quello che ho fatto mesi prima che tutto cominciasse.

Ho fatto ricerche lunghe, viaggi estenuanti, fino a giungere nelle città scelte dalle mie vittime, quando ero ancora un servitore dell’oscurità. Ho ucciso Mavelle nella stanza di un albergo.

L’ho svegliata toccandola con la canna del fucile, nel buio della stanza. Ho aspettato che si mettesse seduta sul letto e accendesse l’abatjour, e le ho sorriso sparandole in faccia. Una morte indolore, istantanea.

Una settimana dopo sono andato a trovare Cosimo Bernardo, un altro angelo, e ho atteso che rientrasse in casa. Per quella morte avevo pensato a qualcosa di spettacolare: un cappio fissato alla trave del tetto. Minacciandolo col fucile, l’ho obbligato a salire sulla sedia e mettersi il cappio al collo. Ho spinto la sedia e mi sono divertito a guardare il suo corpo dondolare. Non era morto, un angelo non può morire impiccato, così gli ho sparato un colpo all’addome. L’ho visto dissolversi tra le urla. Ero un diavolo a quei tempi, uno dei più cattivi che avessero calpestato la terra.

Poi è toccato a Nata Libera, mentre faceva sesso con un umano. Quasi mi dispiaceva interrompere i suoi gemiti di piacere. La camera di albergo era di lusso, con tanto di vasca a idromassaggio. Era sera e avevano consumato una cena in camera, del vino rosso e del dessert per finire in bellezza. Ho usato un passepartout di un cameriere per non disturbarli.

Mi sono fermato a fissarli, mi sono seduto su una sedia e ho appoggiato il fucile sulle gambe. La stanza era in penombra, con l’angelo che si muoveva sopra l’umano godendo di ogni piccolo movimento. Ho atteso qualche minuto, finché lei potesse raggiungere l’orgasmo. L’ho afferrata per i capelli e ho fatto fuoco. Sono morti tutti e due, lei si è dissolta nel nulla mentre l’uomo è morto per infarto.

Questi sono alcuni esempi di quello che ho fatto tempo fa, momenti che non dimenticherò mai perché fanno parte del mio passato, un cattivo passato. Togliere di mezzo gli angeli, e chi avrebbe avuto il coraggio di rifiutare una simile proposta? Ne ero entusiasta.

Sapete, quando creature come noi scendono sulla terra, succede qualcosa che le rende speciali. Forse perché ricevono un dono che non avevamo mai ricevuto: vivere nel mondo e rimanere accecati dall’umanità, con tutti i pregi e difetti che comporta. Si entra nel corpo scelto e si vive attimo dopo attimo, senza riuscire a fare progetti a lungo termine. Col tempo, poi, s’impara a fare anche quello.

Si avvicina qualcuno al mio nascondiglio, forse riprenderò a scrivere più tardi.

Roma – 23 dicembre 2012 – ore 22:05 circa.

Sono riuscito a ritagliare un po’ di tempo da dedicare al diario. Ieri dove eravamo rimasti? Ah si, agli angeli. Posso essere sincero? Credo di aver aiutato molto la stirpe dei diavoli togliendo di mezzo parecchi, come dire, nemici. Mi dispiace per questo, ma solo adesso mi accorgo dell’errore che ho fatto tempo fa.

Ho conosciuto un angelo che mi ha aiutato a cambiare. Questo è successo pochi mesi fa, quando dopo ho sentito una voce nella mia testa. Mi ha ricordato quello che ero secoli prima e cosa fossi diventato dopo: un servitore dell’ombra. Un essere votato al male, che vive per esso e si nutre di sentimenti come l’odio, il rancore, l’invidia, la gelosia.

Un giorno ho visto una Luce e l’ho seguita. Ho capito chi fossi in principio e perché avevo scelto di servire il male. Ma poi tutto è degenerato davanti all’orrore. Stavo cominciando a conoscere quell’angelo, quando Beatrix ci ha raggiunti.

Stavamo in una radura sopra a una collina. Era sera e le stelle, la luna, illuminavano tutto con flebili bagliori. Quel diavolo è apparso dall’oscurità della notte, armato di pugnali simili all’argento. Ci ha sorriso: “Diego, Luce è un piacere vedervi!” e ha lanciato il pugnale colpendola al petto. Non ho fatto in tempo a proteggerla che si è dissolta fra le mie braccia.

Mi sono girato a fissarla con odio, che non provavo da chissà quanto tempo, e ho tirato fuori il fucile da sotto il plaid. Lei ha fatto dei passi indietro, cercando di fuggire sotto terra, ma non ha funzionato. Un proiettile l’ha colpita alla testa ed è scomparsa fra le fiamme che la divoravano. Quel diavolo è stato il primo a morire per mano mia.

Così, da quel giorno, ho cominciato a dare la caccia a tutti i compagni di Beatrix. Volevo sterminare tutti i diavoli giunti con me sulla terra. La vendetta stava per riavvicinarmi al potere dell’ombra. Stavo per ripetere lo stesso errore e per smarrire la strada che avevo ripreso a percorrere.

* * *

Diego Vorra si nascose fra le macerie della città, saccheggiando alcune provviste prese in alcuni supermercati, fra quello che ne rimaneva.

Ascoltami bene, disse la voce nella sua testa, cerca i due bambini e conducili all’isola, che si trova sempre nel Lazio. Il cammino è lungo, pieno di insidie e tu devi portarlo a termine!

Diego aveva acceso un falò fra cemento e mattoni, dietro al furgone dell’agenzia per cui aveva lavorato. Teneva le chiavi in tasca, come fossero la cosa più importante che avesse. Gli occhiali dalle lenti speciali, il fucile dal colore argento. Sapeva che quegli oggetti gli sarebbero stati utili finché fosse rimasto in vita.

“Va bene” disse osservando il fuoco, “farò come dici!”.

Si alzò in piedi e si sgrullò i pantaloni della divisa dalla polvere. Quanto gli dispiaceva vedere il mondo in quello stato. Gli si è sgretolato davanti agli occhi e nessuno poteva far niente, se non vivere quegli attimi di pura distruzione.

Aprì il portellone laterale del furgone e si mise seduto. Afferrò il suo diario dalla copertina di cuoio e lo sfogliò leggendo quello che aveva scritto. Parole impresse sulla carta, ricordi di tempi passati, sangue e lacrime, vita.

* * *

Prima di compiere il mio dovere è giusto che vi racconti degli ultimi tempi a cui ho dato la caccia ai diavoli. Ero accecato dall’ira e, davanti ai miei occhi, non vedevo altro che quelle luride creature votate al male.

Un angelo accecato dall’ira è qualcosa che non è mai esistito. Ecco perché avevo deciso di intraprendere la strada della vendetta, estirpare il male assoluto sulla terra e infilarmi in chissà quale buco per vivere da solo tutti i giorni che mi restavano.

Prima di diventare un agente della Squadra Alpha, rintracciai Morfeo, Erinny, Queen e Sabrynna. Ho ucciso questi diavoli a sangue freddo, senza assaporare la loro morte. Non sentivo nulla quando le pallottole speciali sono penetrate nei loro corpi, né quando il fuoco ha divorato le loro essenze. Dovevo solo eliminare quelle presenze. Mi volete condannare per quello che sto raccontando? Fate pure, uomini, fate quello che avete sempre fatto. Giudicate senza conoscere a fondo le dinamiche, le scelte prese anche se dettate da impulsi umani.

Ma ora vi lascio, perché inizia il mio viaggio verso l’Isola.

* * *

Diego richiuse il diario e lo nascose sotto il sedile posteriore. Saltò sui sedili anteriori del furgone e lo accese. Mise le quattro ruote motrici e partì fra la polvere e le macerie di Roma. Riuscì a percorrere tutta Via della Conciliazione, anche se non poteva raggiungere una velocità sostenuta. Non vide anima viva fino al primo ponte sul Tevere, o quello che ne restava.

Abbassò il finestrino e sentì molte voci provenire dall’ansa sul fiume.

Li senti? Fra quelle persone ci sono coloro che devi salvare, disse la voce.

“E come faccio a sapere chi sono?” chiese Diego, gli occhi che fissavano un punto del ponte crollato.

Che domande idiote! Li chiamerai per nome, si volteranno e capirai di chi si tratta.

“E… posso sapere i loro nomi per favore?”.

Adamo e Eva.

“Ma dai! Dici sul serio? E non potevi scegliere due nomi più originali, al passo coi tempi?”.

Ci fu silenzio, la voce non rispose. Andiamo, Diego, non fare del sarcasmo con me! Ho deciso quei nomi e non si discute!

L’uomo emise un sospiro: “Come vuoi, stavo solo scherzando. A me quei nomi vanno benissimo!”.

Ecco, bravo, adesso va meglio.

Diego aprì il cruscotto e afferrò un piccolo telecomando, quello del verricello montato sul paraurti anteriore. Si sarebbe calato fino alla banchina del Tevere, se ce n’era rimasta una.

Afferrò il fucile d’assalto mettendoselo a tracolla: girare disarmati, di questi tempi, era imprudente.

* * *

Anagni – 25 dicembre 2012 – ore 15:45 circa.

Finalmente i ragazzi dormono sui sedili posteriori del furgone.

Ah, scusate, non potete saperne nulla di Adamo ed Eva, i piccoli che ho dovuto strappare alle persone che volevano portarseli via. Il piano era questo: trovarli e condurli in un luogo sicuro, che conosco soltanto io e forse un’altra persona. Ma a quello ci arriverò a tempo debito.

Comunque sono sceso sulla riva del fiume e ho affrontato due losche figure. Come avevo fatto a non capirlo subito? Per fortuna che mi ero portato dietro gli occhiali e il fucile speciale.

Carroll e la Signora occupavano quel piroscafo semi affondato, convinte che i due ragazzi non li avrebbe presi nessuno. Oh, come avevano torto povere diavole.

Mi hanno visto scendere con il verricello, puntare il fucile a distanza e fare fuoco. Lo sapevate che ho una mira impeccabile? Ecco perché, quando ero entrato a far parte dell’agenzia, mi avevano dato in mano un fucile di precisione.

A conti fatti, su questa terra martoriata, siamo rimasti solo in due: Dave e Diego. Mi dispiace toglierlo di mezzo, ma devo farlo per finire quello che ho cominciato. Schegge impazzite, ricordate? Schegge impazzite!

Dave è convinto di essere la mano sinistra di Dio, ma lui non sa che è diventato una cosa pericolosa e io sono la cura.

* * *

Qualcuno bussò al vetro del furgone, Diego quasi ci rimase secco. Vide una faccia familiare, un sorriso cordiale.

“Ti sei fermato sui miei campi da tennis! Ti decidi a togliere quel cazzo di mostro a quattro ruote, oppure ci penso io a forza di calci nel culo?”.

Diego si girò verso Adamo ed Eva: “Potete mettere le vostre mani sulle orecchie? E aspettate dentro il furgone, mi raccomando!”. I ragazzi eseguirono senza fare commenti, però volevano vedere cosa sarebbe successo.

“Va bene, testa di cazzo!” mormorò Diego.

Aprì lo sportello con violenza e Dave si ritrovò a terra, a faccia in giù.

“Scusa tanto se ho calpestato questi…” fissò quello che rimaneva di un circolo sportivo. Non c’era più nulla che assomigliasse a dei campi sportivi.

Diego lo fissò per un attimo, mentre Dave si rimetteva in piedi. Non pensava di trovarlo ancora lì, in mezzo alla distruzione totale. Che fosse un segno del destino?

Diego fece due passi indietro per afferrare il fucile argentato, controllò i colpi in canna e puntò l’arma verso l’uomo. “Siamo fratelli, ma devo finire quello che ho cominciato!”.

Dave alzò le mani in segno di resa, indietreggiò inciampando sulla rete di un campo da tennis, adesso sembrava più uno straccio gettato in terra.

“Ma tu non puoi essere…”.

Diego fece un segno affermativo con la testa: “Lo sono invece. I miei peccati sono stati perdonati e ora sono un angelo come te.”.

“Avevo sentito dire che i diavoli erano stati uccisi tutti, persino la Signora e Carroll!”.

“E chi sarà stato? La buona fatina del cazzo?”. Diego fece segno di indietreggiare e lui lo fece.

Giunsero ai margini di una piscina semi distrutta e Dave inciampò cadendoci dentro. Finì nell’acqua che ne ricopriva solo una parte e annaspò finché un colpo lo raggiunse alla testa. Il suo corpo si dissolse come neve al sole.

Diego gettò il fucile nell’acqua e tornò dai ragazzi. Attese due ore, finché giunsero quattro persone che circondarono il furgone.

Blossom bussò alla portiera, al suo fianco c’erano Siu, Regole e Madame Pit.

“Consegnaci i ragazzi e tu sarai libero di andare.” disse la donna in tono cordiale.

La voce confermò quello che gli era stato detto, così, a Diego, non rimase altro che guardarli andare via. I ragazzi tenevano per mano le quattro persone che li stavano portando verso l’Isola.

 

“La rivolta”

 

Domenica 27 febbraio 2011 – Roma.

L’uomo fissò l’anziano per alcuni istanti, esitando a fargli la prima domanda. Prese la tazza di tè ancora fumante e sorseggiò. Si sentiva a disagio perché l’interlocutore non aveva mai abbassato lo sguardo, come se lo stesse scrutando nel profondo.

Il vecchio sorrise. Portava la barba e i baffi ben curati, i capelli corti e bianchi, quasi argentei e un volto gioviale. Le sue rughe gli mostravano quanto fosse avanzata la sua età.

Va bene”, disse l’uomo più giovane, “cominciamo da una domanda semplice: come si chiama?”.

Il mio nome non ha importanza.” rispose secco. Anche se aveva una certa età, l’anziano era vestito in giacca e cravatta. Gli abiti scuri davano risalto alla capigliatura bianca.

Ma lei aveva detto che aveva una storia strana da raccontarmi!” protestò in tono seccato.

E con questo? E’ vero, ho una storia per la sua rivista, ma il nome, come le ho già detto, non serve!”.

Guardi” disse il giornalista abbassando il tono, “se le chiedo un nome è per il semplice fatto che mi serve per citare la fonte.”.

Lei senta prima la storia, poi del nome ne riparleremo.”.

L’uomo fece un segno di assenso con la testa, afferrò il micro registratore e schiacciò il tasto di registrazione.

Di cosa si tratta?”. A questo punto s’incuriosì, chiedendosi cosa mai potrebbe raccontare un vecchio di così sensazionale.

Il signore anziano allungò le gambe fin sotto al tavolo, alla sua destra proveniva la luce del sole che illuminava la sua sagoma. Ne parve quasi infastidito, così estrasse un paio di occhiali da sole e se li mise. Trasse un profondo respiro e parlò.

Viviamo in un mondo pieno di sofferenza, omicidi, suicidi e tutti gli atti che l’uomo potrebbe infliggere al genere umano.” sorrise, “mi sento quasi inutile alla causa!”.

Gli porse un foglio con una frase in latino e tradotta in italiano.

Sarete esiliati per quello che avete fatto, per le vostre intenzioni, finché un peccato non verrà commesso alla vostra presenza.

Il giornalista sgranò gli occhi, incredulo. Ma il vecchio non si scompose, anzi, parve esserne compiaciuto.

Lei crede in Dio?” ma non attese la risposta, fissò il giornalista in modo divertito come se già la conoscesse. “E adesso le dirò alcune cose che la lasceranno a bocca aperta, lo farò solo per avere la sua totale attenzione, signor Domenico Gianti.”.

Il giornalista fece per rispondere, ma il vecchio lo zittì precedendolo.

Conosco le sue paure e quanto lei sia cinico.” sorrise compiaciuto, “E che ha perso sua moglie, ma anche che la tradiva da anni. Il rapporto con i suoi figli è disastroso e non li sente quasi mai. Preferisce che se la cavino da soli, così non dovrà sentirsi responsabile per il loro futuro. Se vuole, vado avanti!”.

Il giornalista si fece bianco in volto, non sembrava stare bene. Cercò di sciogliere il nodo della cravatta in maniera goffa. Dopo alcuni istanti, sembrò riprendere il controllo di quella strana intervista. Fece un respiro profondo, terminò il tè e disse: “Non so come diavolo ha fatto, ma è riuscito a stupirmi!”.

Va bene, ha la mia attenzione. Partiamo da quella frase scritta in latino: la riguarda personalmente?”.

Che lei ci creda o no, fa poca differenza. In effetti mi riguarda.” disse il vecchio, spostando più avanti la sedia di fronte alla scrivania del giornalista. Voleva ridurre la distanza che c’era fra lui e l’uomo più giovane, sentire, percepire, scandagliare. Rimasero in silenzio studiandosi, così, il giornalista, poteva sentirsi ancora più a disagio.

Secoli fa, io e altri sei siamo stati esiliati in un luogo chiamato Aesilium, che erano sette palle di marmo, situate all’interno di Castel S. Angelo. Il luogo è simbolico, ma l’esilio è stato reale per centinaia di anni.”.

Il giornalista rise: “Non credo di comprendere, ma il suo sarcasmo mi piace! Sa, conosco un buon psichiatra che la potrebbe aiutare…”. Il vecchio lo osservò, la bocca un’esile fessura. Si tolse gli occhiali e gli occhi si erano fatti scuri, quasi neri. L’uomo tacque, spaventato.

Ha finito?” disse. “Posso proseguire senza essere interrotto?”. Il giornalista non rispose, poté solo tirare un respiro di sollievo osservando gli occhi, che ora tornavano ad essere del colore originale.

E’ a conoscenza dell’omicidio commesso all’interno del castello?”.

Si, l’ho sentito nei telegiornali, alla radio. Anche la mia rivista ne ha scritto un articolo. Direi che sia quasi inquietante!”.

Rilegga quel foglio, colleghi il motivo per il quale sono tornato libero, e faccia le sue deduzioni, se ne è capace!”.

Domenico Gianti si mise più comodo sulla sedia: un atteggiamento per prendere tempo, riflettere sulle ultime battute. “Mi sfugge il motivo della sua intervista, e cosa voglia da me!”.

Il vecchio andò subito al sodo: “Il mondo, per quello che è, fra poco cambierà! Ci stiamo preparando all’ultima battaglia fra gli uomini!”. Fissò il registratore con la luce rossa accesa, vide il nastro girare e proseguì.

Parlo dell’ultimo respiro prima del balzo, ma lei non mi crede e non m’importa!”.

Chi è lei?”, il giornalista si corresse: “Cosa è lei!”.

L’anziano si rimise gli occhiali: “Vedo che fa dei progressi! Io sono un Diavolo, quello che gli uomini hanno etichettato della Fierezza!”.

Lo sa, una volta ero un uomo come lei: un vecchio che sapeva molte cose e aiutava il popolo con consigli, che quasi lo guidava. Avevo raggiunto una notorietà e ne ero fiero e corruttibile. L’orgoglio, quando travalica un esile confine, provoca danni devastanti. E così sono diventato schiavo di me stesso. Ma la cosa buffa è che adoro vivere in questo stato.”.

Il giornalista non disse nulla, lasciò il vecchio parlare perché adesso sembrava innocuo.

Il mio nome, una volta, era Saryo il saggio. Adesso…ho tanti nomi, tante identità. Sono stato scelto per essere la miccia, per innescare quello che deve avvenire.”.

Non ho ancora capito bene: intende dire che ci saranno rappresaglie?”.

L’anziano scosse la testa, ma poi si fece caparbio: “Ha presente le sommosse che sono cominciate in Africa e nelle regioni mussulmane?”.

Vuole dire che le ha provocate lei?”. Poi aggiunse: “Dio Santo!” portandosi le mani sulle guance.

Non sia così credulone, non sono stato io. Ricorda? Ero in esilio!”.

E’ vero! Ma…” l’uomo parve colpito da un’illuminazione, così significativa da apparire troppo audace. “…lo sa che quasi iniziavo a crederci?” e rise. “Lei è un uomo astuto, sa giocare con le parole, però non ha menzionato il Libero Arbitrio. Non riuscirà ad accendere una miccia in Italia per innescare tutto quel casino.”. Il tono della voce si era fatto convinto, come se fosse riuscito a scoprire una bufala nel suo intervistato e in tutta quella storia che aveva raccontato.

Bene, vedo che almeno un po’ si è informato! E le dirò un’altra cosa, farò proprio leva sul Libero Arbitrio per innescare quello che ho in mente. Nessuno potrà fermare quello che avverrà dopo, perché il tempo è quello giusto.”.

Il vecchio si alzò dalla sedia, si affacciò alla finestra che dava sul Tevere, osservando il traffico caotico che scorreva sotto di lui. “E’ stato un piacere conversare con lei. Il tempo dell’intervista è terminato e adesso devo andare.”. Si girò verso il giornalista, poi, il corpo del vecchio si accasciò a terra lentamente, privo di vita.

Domenico Gianti si alzò di scatto dalla sedia, fece due passi per soccorrerlo e gli mise due dita alla gola: costatò solo che non respirava più. Il vecchio giaceva a terra, morto.

Decise di chiamare un’ambulanza: si mise in piedi mentre le parole del vecchio gli vorticavano ancora nella mente. Inoltre, nel suo ufficio, percepiva di non essere solo. La stanza era vuota, ma sentiva che qualcuno lo stava fissando da dietro. Alcuni brividi gli percorsero la spina dorsale, sentì la sua pelle accapponarsi. Ebbe un giramento di testa e la vista gli si annebbiò, finché scivolò sulla scrivania, poi a terra. Sentì un ultimo pensiero prima di perdere i sensi: Il tuo corpo è più giovane, proprio quello di cui avevo bisogno!

Domenico Gianti uscì dall’ufficio e scese in strada. Si fermò sul ciglio aspettando che il semaforo pedonale diventasse verde e attraversò Ponte S. Angelo. Di fronte a lui si ergeva il castello, dall’altra parte del Tevere. Si fermò ad osservare le dieci statue di marmo: esse raffiguravano degli Angeli. Di questi ne conosceva sette.

Sorrise e si sistemò la giacca, riparandosi dal freddo pungente. Il cielo era terso, privo di nuvole, mentre il sole cominciava il suo lento declino e l’ombra iniziava a prendere il sopravvento sulla luce.

Superò Castel S. Angelo finché giunse al parcheggio, nei pressi di Via della Conciliazione. Diede un’occhiata fugace a S. Pietro, infine si dedicò al suo compito: notò una pattuglia della Guardia di Finanza posteggiata nel parcheggio. Nei pressi del castello c’erano alcuni venditori ambulanti, tutti extracomunitari.

Il giornalista fissò il finanziere alla guida della pattuglia.

Non li vedi? Se ne stanno a cinquanta metri da te e ti prendono per il culo! Quante volte gli sei corso dietro senza mai riuscire a catturarli? E quante volte i tuoi colleghi ti hanno sbeffeggiato perché non hai fiato? Sei un fallito come uomo se non riesci a contrastare la criminalità! Devi solo afferrare la pistola e premere il grilletto. Potrai sempre dire che eri stato minacciato, che non erano dei semplici ambulanti con i polmoni pieni d’aria!

Il finanziere scese dall’auto, mentre il collega gli chiedeva dove stesse andando. Accadde tutto in pochi minuti. L’omicidio, il capannello di curiosi, la rivolta popolare verso le forze dell’ordine accusata di eccesso di difesa.

La Battaglia Finale era appena cominciata!

 

“Codice Rosso” 3° Parte

 

“Cristo, Capo, che cosa sono quelle cose?”, la voce risuonò negli auricolari del Capo Team Alpha, come una domanda di chi non voleva credere a quello che vedeva. Eppure, nell’orrore agghiacciante, tutti vedevano un’orda di cose che ora poco aveva di umano: giusto le sembianze.

“Tu pensa a sterminarle tutte, quelle cose, cazzo!”.

“Aprite il fuoco, non lasciatele passare!” gridò qualcun altro.

Angelo Comi non riuscì a capire chi avesse parlato, ma poco importava. Una pioggia di bossoli cadde sui sampietrini della piazza e un rumore assordante di spari echeggiò fra le pareti dell’università cattolica. Poi ci furono diverse detonazioni: granate a frammentazione.

I primi ad essere annientati furono i mostri più vicini alla linea di fuoco, che caddero in terra come sacchi di spazzatura. Gli altri, quelli più lenti, inciamparono sui cadaveri in maniera goffa, senza cercare di ripararsi dall’urto della caduta e vennero raggiunti da altri proiettili.

Cessarono il fuoco e calò un silenzio che quasi stordiva le orecchie di tutti. Poi, il capo del primo Team, si ritrovò a pensare a quella dannata fiala e ad una frase che diceva sempre suo padre: “E’ sempre stato così: tutto comincia dalle cose più semplici e piccole!”.

Sorrise all’interno del passamontagna e della maschera facciale, quanto gli sembrava azzeccata questa specie di proverbio.

Gli uomini del Team Alpha erano tutti vicino al loro capo e stavano osservando lo spettacolo raccapricciante: decine di corpi inermi che giacevano a terra, braccia e gambe macchiati di sangue, cadaveri che non si sarebbero dovuti rianimare, eppure proprio questo processo da narrativa e film horror giaceva sotto i loro increduli occhi.

“Sembra che sia tutto finito!” osservò David Dinolfi. Imbracciò di nuovo l’arma e controllò il caricatore, infine se la portò sulla spalla come se il lavoro in quel posto fosse terminato.

“Anche se quei mostri fossero finiti, abbiamo un sacco di lavoro da fare!” disse Roberto Calvi, Alpha 4. Si guardò intorno esaminando il cadavere di una bambina che avrà avuto dieci anni e, d’istinto, si tolse la maschera anti gas ma si lasciò elmetto e passamontagna.

“Soldato!” disse Angelo Comi, “Rimettiti subito la maschera, è un ordine diretto!” ma finì la frase osservandolo avanzare verso il cadavere più piccolo. Sembrava non lo stesse ascoltando, forse perché non aveva più gli auricolari alle orecchie.

Intanto, i Team Bravo, Charlie e Delta si disposero secondo gli ordini del Protocollo Codice Rosso. Alcuni soldati si dotarono di piccoli serbatoi e spingarde, e presto avrebbero bonificato l’intera zona. La strada che conduceva alla piazza venne chiusa centinaia di metri prima, transennata e costantemente controllata. Nessuno poteva entrare, né uscire fino a nuove disposizioni.

Il capo Team Alpha si affiancò al collega, che stava in ginocchio davanti al piccolo corpo crivellato di colpi. Percepì la sua presenza e disse: “Come diavolo si fa ad uccidere una bambina!”.

Angelo Comi non riuscì a capire se stesse piangendo, ma il tono della sua voce fu flebile, quasi lo avesse detto sottovoce. I suoi anfibi si fermarono nei pressi di un rivolo di sangue, evitò di venirne a contatto: “Era già morta quando le abbiamo sparato.” e gli mise una mano sulla spalla come a dargli coraggio. “Adesso vieni, che dobbiamo terminare il lavoro!”.

L’università venne chiusa e bonificata. I resti della fiala furono prelevati e sigillati all’interno di un contenitore. I responsabili dell’Agenzia avrebbero deciso in seguito se distruggere le prove di quell’Incidente, oppure studiarne la composizione chimica e batteriologica. Comunque nessuno ne sarebbe dovuto venire a conoscenza.

La città di Roma, dopo alcune ore di panico, tornò a vivere la vita di sempre. Sarebbero nate alcune leggende metropolitane, questo era certo, anche se la storia degli Zombie avrebbe fatto ridere chiunque. Qualcuno si sarebbe spacciato per testimone oculare, ma nessuno gli avrebbe creduto: era stata una fuga di gas a provocare quell’inferno e a danneggiare sia la piazza che l’università e la causa del decesso di decine di persone innocenti.

 

“Codice Rosso” 2° Parte

 

La vita per tutti scorreva normale, come se niente stesse per succedere, ma non per gli occupanti dei mezzi militari. Le vie del quartiere di Borgo, a Roma, brulicavano di persone, di turisti e residenti. C’erano molte attività aperte, un brulichio sommesso per le strade, mentre quattro jeep militari facevano ingresso in quella zona.

La gente si fermava e osservava incuriosita il passaggio di quelle jeep, con tanto di mitragliatrice montata sul tettino del mezzo. Qualcuno aveva azzardato che dovessero girare qualche scena di film in zona, magari un film d’azione che andavano per la maggiore.

Cristiano Cosimo, Alpha 2 nel Team Alpha, si occupava dell’armamento pesante e delle munizioni per gli altri membri della squadra. Era il più giovane del gruppo, ma in Pakistan, quando dovevano eliminare il bersaglio più importante della missione, non aveva avuto alcuna esitazione. Freddo e determinato, come dovevano essere tutti i membri del Team Alpha. Persino Angelo Comi ne era rimasto soddisfatto. Al capo Team Alpha gli piacevano le reclute che dimostravano coraggio e freddezza nella prima missione a cui partecipavano. Non che lo avesse preso sotto l’ala protettrice, questo no, ma era certo che Alpha 2 fosse salito due gradini sopra la scala di gradimento nei suoi confronti.

“Capo, ma davvero crede che succederà quello che hanno detto al breafing?” chiese Cristiano stringendo in mano la canna del mitra.

“Siamo qui per fermare qualsiasi tipo di contagio!” rispose il capo Team. La sua voce risultò fredda e determinata anche per il resto del gruppo, che si girò a fissarlo mentre auto parcheggiate e persone sfilavano ai lati della jeep.

Nessuno aggiunse nulla, mentre la radio di bordo gracchiava per la statica dopo un messaggio del comando centrale. A tutte le squadre, pronti all’ingaggio! Abbiamo la certezza assoluta che la fiala è stata rotta e il liquido ed il gas si sono sparsi nell’aria.

“Cazzo!” mormorò Angelo Comi.

David Dinolfi, Alpha 3, disse: “Quei coglioni si sono dimenticati di dirci quali sono le regole d’ingaggio!”.

Roberto Calvi, Alpha 4, estrasse il caricatore dal mitra, ne verificò il contenuto e lo rimise nell’alloggio. Era senza passamontagna ed elmetto ed il suo viso sbiancò all’istante, alcune gocce di sudore apparvero sulla fronte. “Ma come cazzo si fa, capo, Roma è piena di gente e…”.

“Tu pensa ad eseguire gli ordini del comando e quelli che ti darò io, per il resto non ti devi preoccupare. La gente se la caverà e, quando sentirà i primi spari, vedrai che si rifugeranno in qualche buco in attesa di istruzioni.” gli rispose senza guardarlo.

I quattro Humvee percorsero una via stretta e superarono un incrocio senza rallentare: un motorino quasi si schiantò su una macchina parcheggiata pur di evitarli. Giunsero davanti ad una piazza piccola e circoscritta: lì non c’erano vie di fuga se non quella stessa strada da cui erano venuti.

“Va bene, gli ordini sono di mettere i passamontagna, le maschere e gli elmetti! Presidiate la zona: che nessuno esca ed entri!” disse l’autista del mezzo.

Angelo Comi impartì di nuovo gli ordini ai suoi uomini, lasciando sul mezzo Alpha 5, al mitra piazzato sul tetto del mezzo. Così fecero anche le altre squadre.

Tutti gli uomini dei Team scesero dalle jeep, gli anfibi che toccavano i sampietrini producevano dei rumori sordi per via dell’eco della piazza, e la zona, stranamente, risultava troppo silenziosa.

Angelo Comi si guardò intorno, mentre stringeva in braccio l’arma carica ma in sicura. L’edificio principale aveva l’ingresso aperto, una bandiera italiana sventolava per la brezza della sera, i rami degli alberi si muovevano leggermente.

Si trovavano di fronte ad un’università cattolica.

Si dispiegarono lungo il perimetro della piazza, davanti a loro c’era una lunga siepe e, al centro di essa, una fontanella in marmo. Per accedervi c’erano due rampe di scale e il capo Team Alpha pensò subito di sfruttarlo a proprio vantaggio, ci avrebbe fatto montare un mitra con cartucce a nastro.

“E da lì” disse alla sua squadra, “avremo fuoco di soppressione in caso di problemi! Ci sono domande?”.

Nessuno ne fece, anche se miliardi di domande vorticavano nelle loro menti.

I capi squadra si riunirono dietro le jeep e vi rimasero per diversi minuti: c’erano le direttive del Comando che andavano fatte rispettare ad ogni costo. Alcuni uomini si erano spinti oltre la siepe, perché l’ingresso dell’università era aperto, ma non sembrava esserci movimento all’interno.

Qualcuno aveva gridato, ma il suono della voce era pervenuto agli auricolari dei soldati. “C’è un civile a terra!” aveva avvisato subito dopo. Il militare apparteneva al Team Charlie: si era inginocchiato al fianco del corpo, lo aveva voltato controllandogli il battito cardiaco.

“E’ morta!” disse ai colleghi. Si trattava di una ragazza, probabilmente una studentessa che si era seduta su una delle panchine in marmo. Ipotizzarono che fosse morta per un attacco cardiaco, o chissà cos’altro.

Angelo Comi controllò il cadavere e diede ordine di portarlo via ai suoi uomini, in attesa di un’unità militare che lo prendesse in consegna. Erano le 18:13 quando iniziò a degenerare tutto in caos e orrore.

Gli occhi della ragazza si aprirono, le braccia si mossero in uno spasmo, poi le gambe come se avesse un attacco di convulsioni. Il capo Team Alpha cadde a terra per lo spavento.

Fu tutto così veloce ed imprevedibile.

La donna si mise seduta, indossava jeans e una camicetta bianca, un reggiseno nero si vedeva attraverso il tessuto della camicia. Aveva un viso bello, lo aveva avuto prima del decesso, ma ora era pallida come un cadavere e gli occhi… gli occhi avevano perso il colore naturale, adesso erano opachi.

“Ma come cazzo fa…” disse qualcuno alle spalle di Angelo Comi, aveva parlato nel microfono messo all’interno della maschera.

Angelo Comi fu aiutato a rialzarsi, mentre la ragazza stava ancora seduta a terra e cominciava a guardarsi attorno. Posava lo sguardo su di lui, poi sui colleghi che gli stavano vicino.

Cristiano Cosimo, il più giovane della squadra, si affiancò al capo Team: “Ma non era morta?”.

Lui si voltò verso l’interlocutore, s’intravedevano appena gli occhi dalla maschera, “Quella ragazza è morta!”.

“E allora che cazzo ci fa seduta?”.

Il capo Team Alpha non gli rispose, tolse la sicura dal suo mitra M4A1 e lo puntò sulla ragazza, mirando alla testa.

Qualcuno tentò di fermarlo parlandogli via radio. Nessuno era certo che fosse morta e adesso tutto sembrava tranne che priva di vita.

Udirono delle urla provenire dall’edificio dell’università, così tutta l’attenzione si spostò verso l’ingresso aperto. “E adesso?” disse qualcuno. Si misero tutti in allarme, caricando le armi concentrandosi sul nuovo problema.

La ragazza si mise in ginocchio muovendosi adagio, come se tastasse il terreno sotto di lei, fissò un soldato che gli voltava le spalle e si mosse nella sua direzione. Le mani afferrarono una gamba e strinsero forte finché la bocca arrivò al polpaccio.

L’urlo del soldato giunse in tutti gli auricolari, nessuno lo avrebbe dimenticato per un pezzo, era un misto di sorpresa, dolore e paura.

Angelo Comi reagì subito. Colpì la donna con il calcio dell’arma, proprio sulla guancia sinistra, scaraventandola ad un paio di metri dal soldato. Aveva la bocca sporca di sangue e una ferita al viso, forse anche qualche frattura. Aveva perso qualche dente che giaceva sui sampietrini della piazza.

Non esitò più e le sparò due colpi al petto. Altro sangue uscì dalla nuova ferita, ma la donna non rimase a terra immobile, tutt’altro. Il suo sguardo si posò su Angelo Comi e digrignò i denti sputando altro sangue sulla camicia già macchiata.

“Sparate alla testa!” urlò qualcuno.

Angelo Comi appoggiò il calcio dell’arma alla spalla e prese la mira. Sparò un solo colpo colpendola in fronte. La donna si adagiò a terra e rimase immobile. Una chiazza di sangue si allargò sul pavimento della piazza.

Calò un silenzio surreale per alcuni attimi, poi ci fu movimento all’ingresso dell’università. Le luci pubbliche si accesero provocando un ronzio sommesso e la piazza fu inondata da una luce arancione. Decine di ombre apparvero sulle pareti interne del landrone, poi udirono dei lamenti misti a ringhi. Videro decine e decine di persone accalcarsi verso l’uscita, ma c’era qualcosa che non andava.

 

“Codice Rosso” 1° Parte

Quando all’inferno non ci sarà più posto, i morti cammineranno sulla terra!

Roma – 21 maggio 2012 – Via della Conciliazione

Angelo Comi, oltre a essere un amico di Diego Vorra, era anche un collega. Entrambi appartenevano al Team Alpha, con base nei pressi della basilica di San Pietro.

Su internet c’erano centinaia di blog che parlavano della data odierna, anche molte radio emittenti ne avevano dato ampia visibilità rendendola più celebre. A lui sembravano delle grandi stronzate. Non ci credeva all’inizio dell’Apocalisse, che molti ritenevano coincidesse con quel preciso giorno.

E lui quel giorno era in permesso.

Si era vestito in abiti civili, indossando un paio di jeans, una camicia azzurra e un paio di scarpe comode. Aveva deciso di prendersi un caffè al bar all’angolo, quando ricevette una telefonata. Il numero, come immaginava, era privato.

Una voce maschile gli disse: “Diego Vorra è compromesso! Inoltre ha fatto perdere le proprie tracce.”.

Angelo non si scompose, appoggiò la tazzina sul bancone e uscì dal locale ascoltando cosa aveva da dirgli.

“E’ scattato il Codice Rosso” aggiunse la voce, “non appena tre cadaveri sono stati rinvenuti nei laboratori e la fiala è scomparsa!”.

Si fermò all’incrocio e si mise gli occhiali da sole: quel giorno faceva caldo a Roma.

“Con cosa abbiamo a che fare?” chiese.

“Soldato, la cosa non la riguarda. Pensi soltanto ad unirsi al suo Team e a cominciare le ricerche! Ah, il comando del Team Alpha è passato a lei!”.

La telefonata venne interrotta e Angelo Comi rimase fermo sul marciapiede nonostante il semaforo pedonale fosse verde. Non sapeva se essere felice per l’improvvisa promozione, oppure preoccuparsi per il Codice Rosso. Da quando era entrato a far parte dell’Agenzia Angels, non era mai stato diramato quell’allarme. E non era una cosa buona, quando si parlava di Sicurezza Nazionale!

Attraversò Via della Conciliazione e varcò l’ingresso dell’Hotel Columbus. Davanti aveva un giardino ben curato, con fiori e piccoli alberi ad abbellirlo.

Chiamò un ascensore e controllò di essere l’unico ad aspettarlo. Entrò e girò una chiave sotto la pulsantiera: questa girò su sé stessa rivelando altri tre tasti. Schiacciò il numero tre e l’ascensore scese di tre piani.

Percorse un lungo corridoio illuminato da lampade al neon. Non era solo, ma c’erano molti colleghi vestiti in divisa d’assalto. Erano tesi, si stavano preparando per un’altra missione.

Un lampeggiante rosso illuminava parte del corridoio.

Entrò all’interno di una stanza contrassegnata dallo stemma del suo Team.

Iniziò a preparare l’attrezzatura in dotazione, prima di vestirsi con la divisa d’assalto.

* * *

Il briefing cominciò alle 16:00, in una sala grande e arredata da un lungo tavolo e un telo per eventuali proiezioni. Una mappa dettagliata di Roma era affissa ad una parete.

Nessuno parlava, non volava nemmeno una mosca, mentre tutti gli occhi erano puntati sul loro comandante. Le zone da controllare erano molte, ma si pensava che il soggetto fosse rimasto nelle vicinanze per attuare il suo devastante piano.

Lo volevano vivo e incolume, perché non potevano permettersi che quella fiala perdesse anche una sola goccia del suo contenuto.

“Le forze dell’ordine sono state allertate: hanno una foto e un profilo del soggetto.” disse Amedeo Corsi, il comandante delle quattro unità.

Qualcuno alzò la mano e gli fu permesso di parlare: “E’ la prima volta che facciamo una sortita in città, in assetto da battaglia. Non spaventeremo la gente?”.

“I satelliti stanno frugando le vie del centro di Roma, due elicotteri hanno cominciato una ricerca minuziosa. I nostri analisti stanno cercando di prevederne le mosse. Se quella fialetta dovesse perdere il contenuto, signori miei, non basteranno tutte le nostre armi per fermare il disastro che ne conseguirà!”.

L’uomo guardò ogni capo squadra presente nella sala, gli sguardi cupi, pensierosi. Aggiunse: “Interverremo non appena avremo il più piccolo spiraglio di catturarlo!”.

“Signori, vi voglio pronti in ogni istante. Questa missione ha un’importanza che nemmeno immaginate. Aggiungo anche che il Codice Rosso non è stato mai diramato fino ad oggi. Tenetelo bene a mente.”.

I capi squadra tornarono dai loro Team e attesero la chiamata.

La stanza del Team Alpha era abbastanza capiente per contenere armadietti, brande a castello e un tavolo. C’era spazio per riposare, oppure rilassarsi.

Erano in cinque e Angelo Comi aveva cercato di rispondere a tutte le domande che gli furono fatte. Certo, alcune volte era stato evasivo, ma solo perché non aveva risposte nemmeno lui. La più frequente era stata: perché Diego Vorra era diventato un disertore? Se lo chiedeva anche lui, ma senza riuscire a darsi una sola risposta.

“Portatevi anche i visori notturni, perché non sappiamo quando ci daranno il via alla missione!” disse Angelo Comi. Il suo zaino tattico era pronto e appoggiato all’armadietto. Le armi – ne aveva due in dotazione – cariche e in sicura. La pistola di ordinanza e il mitra M4A1, comodo e fedele amico nelle missioni.

Si sdraiò sul letto portando le mani dietro la testa. Il Team, prima di ogni missione, si distendeva scegliendo altri nomi per ogni membro della squadra. Per radio non era permesso pronunciarli, tanto meno mostrare il volto fuori dalla base. Erano uomini che avevano una doppia vita, per non svelare chi fossero realmente.

Le loro missioni non venivano mai svelate a nessuno. Proprio com’era successo in Pakistan, nel compound di Bin Laden. Facevano parte, a tutti gli effetti, delle squadre dei Reparti Speciali, anche se appartenevano ad una specifica Agenzia.

“Ci trasporteranno con dei furgoni a blindatura leggera, vetri opachi e antiproiettile. Le squadre di cecchini verranno appostate sui tetti più alti, in modo da darci indicazione. Se il bersaglio è ancora in zona, noi lo staneremo!”.

“Ma non era tuo amico?” chiese David, o Alpha2 per gli altri del Team.

Angelo fece una smorfia, si mise seduto sul letto. “Hai detto bene: era, mio amico. Da quando ha ucciso tre persone e sottratto quella maledetta fiala, è diventato il nostro peggior nemico.”.

“E se quella roba si dovesse rompere?” chiese un altro.

Fece spallucce: “Non ci hanno detto niente al riguardo!”.

Un allarme suonò per tutta la base, gli uomini si alzarono in piedi e corsero agli armadietti. Indossarono gli auricolari, un giubbotto in kevlar e un passamontagna. Misero i caschi dello stesso colore della divisa e presero tutto il materiale in dotazione. Nessuno disse più nulla.

Uscirono nel corridoio e si unirono agli atri: Team Bravo, Charlie e Delta.

Un uomo li spronava a correre, urlava ordini, sbraitava: “Forza, forza, muoversi! I quattro furgoni vi aspettano fuori!”.

La missione cominciò alle 18:00 in punto.

Roma – 21 maggio 2012 – ore 18:00.

Quattro Humvee si parcheggiarono su Via della Conciliazione, i motori accesi e una mitragliatrice montata sulle torrette. Non c’erano i furgoni promessi durante il briefing, ma solo mezzi militari. Alcune ambulanze correvano a sirene spiegate, attraversando quella via e dirigendosi verso le vie del quartiere di Borgo.

Angelo Comi, prima di salire sulla jeep, si guardò intorno. Vide i turisti che si dirigevano verso Piazza San Pietro, i taxi che transitavano per la via, gli autobus pieni. Sembrava una giornata ordinaria, una come tante, ma non lo era affatto.

“Indossate queste” disse l’autista del mezzo, “ma mettetele solo quando scenderete. E’ per la vostra sicurezza!”. Passò ad ogni membro del Team Alpha una maschera facciale con un respiratore: era di colore verde e all’interno aveva un sofisticato congegno radio per comunicare con gli altri uomini.

I quattro Team salirono sugli Humvee e presero posto. Lo fecero velocemente, mettendosi ognuno ai posti assegnati.